La prima volta che ho fatto una sega

racconto erotico adolescenza

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    Avevo tredici anni quando stavo con Manny. Non era il mio fidanzato. Era un vicino di casa. Aveva due anni più di me. Io facevo la seconda media e lui la terza, ma era stato bocciato, e aveva una moto da cross. La relazione si basava sulla distanza percorribile a piedi da casa mia a casa sua. E qualche volta su quella da casa sua alla nostra scuola con la sua moto. Non c’era amore. Lo ricordo bene. Non provavo sentimenti per lui. Era il mio corpo che provava delle cose. Ma gli sarebbe andato bene chiunque. Lui era più vicino di altri, ecco.

    Avevano fatto tutto degli amici, due miei compagni di classe. Lui una volta aveva detto di me, – quella lì è calda – (e, porca miseria, calda lo ero davvero) e loro me l’avevano riferito. Io avevo risposto tutta eccitata – davvero ha detto così? – . E nell’arco di due intervalli delle dieci ci eravamo “messi insieme”. Per celebrare l’avvenimento c’era stato un bacio innocuo sulle labbra davanti alle macchinette del caffè, all’intervallo delle dodici, condito da un cioccolatte con troppo zucchero (quelle tacchette non corrispondevano mai al grado di dolcezza che volevo stabilire). Poi ci avevano fatti incontrare nel parco che stava tra casa mia e casa sua e ci avevano lasciati soli. Come due cani che si devono accoppiare. In quel parco da piccola (da più piccola) ci raccoglievo le more con mia mamma, e la cicoria con mia nonna. Ci avevo giocato per giorni interi a nascondino. Ci avevo costruito una casa su un albero con altri amichetti. Ci ammazzavamo le estati a colpi di ghiaccioli e gare in bici.

    Era il parco della mia infanzia. Non gliel’ho fatta lì la prima sega.

    Lì ci siamo baciati. Ma io avevo paura. Mi sentivo caldissima in ogni punto ed era una sensazione spaventosa. Avevo baciato altri ragazzi, ma non così. Non faceva così paura. Così abbiamo smesso quasi subito, e io me ne sono tornata a casa.

    Siamo tornati in quel parco altre volte dopo la scuola, e ogni volta ci baciavamo un po’ di più.
    Non ci dicevamo niente. Erano incontri tra lingue. Molto puri.
    Lui voleva molto di più da me. Ma io non potevo darglielo. Avevo troppa paura.
    Le sue mani fredde mi entravano sotto la maglietta, me le spingeva nell’incavo dei jeans. E io pulsavo. Quelle pulsazioni mi terrorizzavano. Eppure continuavo a presentarmi al parco dopo la scuola, e lasciavo che le sue mani entrassero ogni giorno un po’ di più a scaldarsi sotto i miei vestiti.

    Un giorno presi coraggio e lo invitai a casa mia. Spesso di pomeriggio ero completamente sola. Avevo scelto il giorno in cui mia mamma faceva la spesa per stare ancora più tranquilla.

    Quel pomeriggio avevo iniziato a pulsare da quando l’avevo visto arrivare dalla finestra. Casa sua era tre palazzi dopo il mio e io lo aspettavo per le quattro già dalle tre, così l’avevo guardato camminare per l’intero tragitto. Era bello. Me ne accorgevo solo in quel momento, camminava sicuro di sé, in quel suo corpo che era già da uomo, nonostante fosse un quindicenne. Allo squillo del citofono avevo avuto una specie di mancamento. Mentre saliva le scale, tremavo. Quando finalmente è arrivato davanti alla porta e mi ha sorriso mi sono un po’ calmata. Forse non sarebbe successo niente di brutto. Ci siamo dati un bacio. Senza deciderlo avevamo messo entrambi la stessa tuta dell’Adidas. La cosa mi aveva fatto tenerezza. Ci siamo seduti sul divano, nemmeno troppo vicini, davanti alla tv accesa. Guardavamo MTV, era il momento dei video musicali a rotazione, noi eravamo diventati due ebeti, completamente dissociati. Non esistevamo più. C’era solo una grande voglia sorda. Come quando vai in montagna e ti si tappano le orecchie. È una sensazione che provo ancora.

    Non ci siamo detti una parola. Abbiamo iniziato a toccarci le gambe, ad avvicinarci, ad attaccarci. Ricordo la sua lingua calda in bocca. La sua saliva. Voleva che glielo toccassi subito, lo sapevo. Mi spingeva la spalla contro la sua, di modo che il mio braccio volgesse a favore del suo cazzo. Voleva che la mia mano arrivasse subito lì. Allora gliel’ho sfiorato con le nocche. Poi l’ho toccato tutto, l’ho stretto. Lui mi ha preso la mano, si è slacciato la tuta, e mi ha fatto entrare in tutto quel caldo. Ho sentito i suoi peli, e quella cosa grossa, dura. L’ho toccato sopra le mutande, piano. Lui mi strizzava le tette, mi baciava, mi riempiva il collo di saliva. Sono entrata con la mano nelle sue mutande con molta calma, l’elastico mi teneva la mano ancorata al suo cazzo. Non sapevo che fare. Lui ha aspettato, non mi ha dato indicazioni. È sceso con la mano in mezzo alle mie gambe, e l’ha strusciata a lungo, finché non mi si sono bagnate le mutandine. Mi ha fatto togliere la tuta dell’Adidas, ricordo bene la federa di cotone fresca del divano sulle gambe, all’interno delle mie ginocchia. Io lo toccavo piano. Andavo su e giù, come qualcuno mi aveva detto. Chi me l’aveva detto? Chi mi aveva detto come si fanno le seghe?

    Andavo su e giù, non smettevo, non mollavo. Ho aumentato la velocità della mia mano. A quel punto non riusciva più a toccami, a baciarmi.

    Ma non voleva che la cosa finisse lì. Mi ha preso la testa con la mano e mi ha spinto in mezzo alle sue gambe. Il mio collo era teso, ma lui spingeva, allora mi sono incazzata. Ho tolto la mano. Lui mi ha accarezzato la testa, ha ricominciato a baciarmi, per rabbonirmi, ma io mi ero incazzata davvero. Per sempre. L’ho lasciato baciarmi ancora un po’. Lui si è stravaccato sul divano a gambe aperte, sollevando il bacino. Voleva che la mia mano ritornasse dov’era. Ma ormai era troppo tardi. Non avevo più voglia. Non ne avrei avuta più per molto tempo. Non ricordo se ci siamo detti qualcosa dopo, se io ho preso qualcosa da bere nel frigo, se sono andata in bagno.

    Ricordo che ho sentito la macchina di mia madre arrivare in garage. La portiera sbattere. Lei che trafficava con le buste e che mi chiamava per aiutarla. Siamo usciti dalla porta insieme, Manny è praticamente scappato nell’androne e poi se n’è andato via di corsa sulla strada. Io non l’ho guardato allontanarsi. Ho sceso le scale e sono andata incontro a mia madre in garage. Ero bollente e paonazza.

    Le ho sorriso
     
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