I film horror più assurdi di sempre

Una lista di Film horror neppure degni di essere classificati come B movie

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    Tetsuo

    Uno dei cult assoluti del cyberpunk cinematografico, rappresenta l’alienazione esistenziale prodotta da una tecnologia sempre più perfetta e sempre più disumana. Convulso incubo metropolitano, il cui senso è relegato alla visione completa della trilogia (Tetsuo 2 – Body Hammer del 1992 e Tetsuo 3 – The bullet man del 2009): qualsiasi considerazione deve necessariamente essere postuma, e non credo sia lecito, in questo caso, esprimere giudizi preconcetti a riguardo.

    TetsuoIn breve: fantascienza low-budget con forti elementi horror, trama sconnessa e richiami a Cronenberg ed al cyberpunk. Una chicca originale e delirante, non troppo agevole da visionare ma cult all’ennesima potenza. Tetsuo, l’uomo di ferro: girato volutamente in bianco e nero e con pochi mezzi (il regista ne interpretò una parte per ovviare ad esigenze di low-budget), forse rappresenta in sintesi il desiderio ancestrale di immortalità ed onnipotenza dell’uomo, del suo folle voler essere invincibili ed intoccabili che non può che tradursi, al giorno d’oggi, in barriere d’acciaio che ci vincolano, in rudi movimenti meccanici, indotti da un ambiente circostante sempre meno Umano e sempre più vuotamente Tecnologico. Obiettivo finale: la nichilistica auto-distruzione.

    Come in “Tokio Fist” anche qui il dolore rappresenta parte della vita: attraverso esso si veicolano le sensazioni autentiche che sono rimaste all’ uomo (idea presente, in linea di massima, anche nella saga di Hellraiser), troppo spesso intrappolato nelle gabbie della modernità, del “dover fare” e della vuota produttività. Una scena altamente simbolica del film, del resto, e spesso dimenticata in favore del tentativo di delineare l’intreccio, si verifica quando il “metal fetishish” annuncia che “…presto il tuo cervello diventerà di metallo“, e mostra “un mondo nuovo” al povero Tomoo (ormai interamente mutato): un campo di fiori fatto interamente di ferro, con steli a forma di molle. In questi fotogrammi si racchiude buona parte dell’essenza artistica – e dell’amore per il cyberpunk – del regista Shinya Tsukamoto.

    I non sequitur di “Tetsuo – The iron man” (e ce ne sono parecchi) sono tutt’altro che digeribili, ma fanno parte di un’estetica, di un modo di fare cinema come espressione di un legame disturbante tra uomo e macchina. Rimane realistico pensare che, al contrario del movimento letterario che conta vari guru (ad esempio James Ballard e, in parte, Philiph Dick), il cyberpunk cinematografico si è sviluppato in modo piuttosto disorganico, e non presenta tratti riconoscibili ed esclusivi: questo certamente non depone a vantaggio di un film, come quello in questione, certamente non per le masse di pubblico. E’ anche vero che il suo sviluppo in forme più “commerciali” (pensiamo a “Matrix” e a tutto quel filone che comprende ad esempio Johnny Mnemonic), non è esattamente riconducibile a questa corrente, per molti versi La corrente cyberpunk. Il voler stare “fuori dalle righe” di Tsukamoto, ad ogni modo, provoca un forte disorientamento nello spettatore medio, sfavorendo nettamente la visione del film e facendo cadere in tentazione parecchi spettatori di chiudere il televisore dopo neanche quindici minuti. Nonostante il film si possa facilmente tacciare di voler sembrare un po’ sterilmente filosofico, possiede il merito di aver riconsegnato, all’epoca attraverso i meandri del cinema underground, una autentica dimensione artistica in chiave moderna ad un prodotto audio-visivo. Tetsuo lancia messaggi sovversivi e preoccupati sul nostro futuro, anche se spesso confusi e non intuibili. Innumerevoli i riferimenti ad altri film simili come stile e tematiche: si va dal classico “Eraserhead” di David Lynch (stile delle riprese, trama sconnessa) fino a Cronenberg: “La Mosca” nel rapporto di coppia mutato tra due amanti a seguito di un cambiamento fisico (il trapano-fallico in questa sede, la mutazione in insetto di Brundle nell’opera citata), Videodrome nell’utilizzo dello schermo come mezzo di alienazione, in generale la tematica del “body horror” che ha caratterizzato almeno la prima metà della produzione del regista canadese, e di cui Tsukamoto si è dichiarato più volte fan.

    Vi sono alcuni punti salienti della trama che, a mio avviso, occorre evidenziare, anzitutto le fotografie di atleti e corridori collezionate all’interno della macchina: sembra infatti che il metal fetishish (nella vita di ogni giorno, Tsukamoto) non sia altro che una sorta di maratoneta che probabilmente cercava nuovi modi per incrementare le proprie prestazioni a mo’ di doping. Questo lo si deduce non tanto dalla sua corsa frenetica all’inizio ed alla fine del film, quanto dal fatto che indossa una maglietta da corridore con una “X”, come se fosse il numero di gara, stampata sopra. L’ impiegato Tomoo Taniguchi (interpretato da Tomorowo Taguchi) e la ragazza (interpretata da Kei Fujiwara) hanno prima investito il feticista, poi trasportato in macchina e, in preda al panico, lo hanno prima lasciato in un burrone e poi hanno grottescamente fatto sesso (!), probabilmente per smaltire la tensione o, magari, in preda ad un’eccitazione modello Crash.

    Poco dopo la colazione Tomoo parla al telefono con la ragazza, ed il fatto che i due ripetano continuamente “Pronto” senza dirsi null’altro fa intuire una sorta di alienante senso di colpa per l’accaduto. Alla fermata della metropolitana Tomoo incrocia una donna, contaminata da una “cosa” metallica informe (che, nonostante le dimensioni, sembra “contenere” o essere controllata a distanza dal metal fetishist) che le intacca la mano e la trasforma in una specie di androide metà donna e metà macchina. Costei cerca di aggredire, senza un apparente motivazione, il salary-man protagonista rincorrendolo fino ai bagni della metropolitana, e poi fino a casa, dove grazie ad un cacciavite l’uomo ha la meglio, mentre è probabilmente rimasto definitivamente infetto dal metallo. La sera stessa sogna di essere sodomizzato dalla compagna (non da una “demone” qualsiasi, come qualcuno sul web ha scritto), mutata anch’essa in una malefica danzatrice provvista di un tubo metallico pieghevole in corrispondenza del pube. Impressionante il modo in cui Tsukamoto, da qui, rende gli effetti speciali impressionanti e realistici (si vedano i circuiti nel braccio di Tomoo).

    Altro tocco di classe agli effetti speciali: la pelle che si stacca dal viso del salaryman, sotto il quale vi è un’intricato insieme di circuiti e fili elettrici. Il metallo sembra anche conferire una sorta di invulnerabilità a Tomoo, che non risente delle numerose coltellate subite dalla ragazza dopo aver tentato di aggredirla con il mostruoso trapano-fallico (scena cult citatissima). Il delirio di effetti speciali del finale, poi, va seguito con grande attenzione perchè mostra un’immensa e dettagliatissima ragnatela di tubi metallici, fili e circuiteria elettrica che fa meraviglia, di per sè, per una produzione low-cost. Molte sequenze sono state girate nel cosiddetto “passo uno“, ovvero utilizzando un singolo frame al secondo al posto dei consueti 25, creando un effetto di immagini “a scatti” usato qui in modo estremamente suggestivo.

    “C’è una bipolarità: stress e amore. Amore perché la tecnologia ha permesso la crescita economica del Giappone, stress perché ci ha oppresso e se vengo oppresso l’unico desiderio che provo è quello di una tabula rasa, distruggere per creare qualcosa di migliore” (S. Tsukamoto)



    Possession

    Una donna in crisi col marito possessivo inizia a manifestare un comportamento sempre più disturbante; i sospetti di infedeltà coniugale la renderanno ancora più sinistra.

    In breve. Sebbene relegato all’ambito del cinema d’essai, Possession è la dimostrazione di come l’horror possa essere un linguaggio ideale per la rappresentazione di drammi. Un piccolo capolavoro del regista recentemente scomparso, forse la sua testimonianza più importante. Nonostante qualche bizzaria nella narrazione, riesce a farsi seguire anche dal grande pubblico.

    Possession rientra – almeno nella mia esperienza di spettatore, e ad una prima analisi – tra i film sostanzialmente privi di genere: classificato spesso come horror psicologico, sarebbe quantomeno onesto ammettere che si tratta di una semplificazione brutale – se non altro parziale, per non dire ingiusta – rispetto al lavoro di Zulawski.

    Possession è un film che funziona, in effetti, perchè focalizza le proprie qualità sulle doti interpretative dei singoli protagonisti, con un grado di espressività esasperata – tipica ad esempio del teatro moderno, più introspettivo o psicologico – per quanto si ceda, a volte, alla tendenza a rappresentare simbolismi forse astrusi, forse poco chiariti. Una splendida (in ogni senso) protagonista come Isabelle Adjani è in grado di calarsi completamente nella doppia parte Anna / Helen, e se il film è decisamente bello (e riesce a turbare lo spettatore) gran parte del merito è della sua interpretazione. Impossibile non notare, poi, l’ambientazione nella Berlino all’epoca divisa dal muro, sorvegliata militarmente e simbolo della divisione familiare forzata.

    In questo senso, e senza che ciò possa sembrare troppo arbitrario, Possession è un film lynchiano, nel senso che va vissuto nel suo fluire e che, soprattutto, lascia spazio alle interpretazioni soggettive degli spettatori, tutte egualmente valide – a patto che si sappia accettare il linguaggio (non proprio convenzionale) scelto dal regista. Buona parte della fama di incomprensibilità, per inciso, è probabile che derivi dalla versione italiana in videocassetta di questo film, doppiata in maniera discutibile e montata (cosa davvero assurda) in maniera arbitraria; la versione da vedere è quella di quasi due ore edita in DVD dalla Raro Video (e non banalissima da reperire, ad oggi).

    In questo contesto l’aspetto puramente narrativo finisce quasi in secondo piano, tanto che – astraendoci per un attimo dal contesto – saremmo di fronte a premesse tanto banali da risultare sconcertanti: una donna sposata con un figlio trova un amante, e vive il dramma del divorzio. La storia è tutta qui, per cui è chiaro che la regia di Zulawski ha contribuito grandemente ad impreziosirla ed espanderla. Un discreto (e neanche originalissimo) melodramma che, nel caso di Possession, è solo il punto di partenza per l’evoluzione e lo sviluppo di situazioni imprevedibili, e per favorire il dispiegarsi di una tragedia consumata tra mostri interiori ed esteriori.

    Il predominio dei personaggi è tanto forte da essere, di fatto, il vero focus su cui concentrare l’attenzione: il rigido conformismo e l’aggressività latente di Mark, incapace di accettare la mutazione (in parte cronenberghiana) della moglie, ed ossessionato dal proprio amore al punto di perdere il controllo di sè; la natura doppia ed imprevedibile di Anna, in bilico tra come – suo malgrado – sta diventando (Anna, nella sua versione “posseduta” da un amante incontrollabile, imprevedibilmente violenta e tormentata e, poco dopo, assassina) e come il marito vorrebbe che fosse, in versione idealizzata (la maestra, angelo del focolare domestico, Helen). L’autolesionismo dei due, che emerge simbolicamente nel momento in cui si feriscono, deliberatamente, col coltello elettrico, da’ il via al lato più terrificante della storia, che fino alla comparsa del mostro visibile poco dopo – e che gli ha conferito la fama di horror di cui sopra. L’elemento di mostruosità (il “polipone” ideato da Carlo Rambaldi) interviene nel film a spezzare l’ordinarietà del dramma, e poco importa quanto possa apparire fuori posto una presenza del genere; è proprio questo mix, piuttosto, a rendere Possession un unicum del suo genere, alla pari di film analoghi sulla possessione/ossessione amorosa imprescindibili per qualsiasi amante del genere (e non posso fare a meno di pensare ad Audition, e a quanto Miike possa aver da qui attinto a livello di atmosfere).

    Proprio il tema del doppio, certamente non nuovo al cinema – basterebbe pensare a Doppelganger del 1969, ma anche a buona parte della filmografia di David Cronenberg – è centrale in questo film del regista polacco. La sequenza in cui Anna urla e scalpita in metropolitana, emblema di una psicosi al culmime, se da un lato appare quasi grottesca nella sua insistenza, finisce per rappresentare l’essenza dei suoi tormenti interiori, da sempre in bilico tra una (apparente) libertà che la illude, ed un vincolo familiare che la fa semplicemente sentire in colpa.

    Dall’altro lato, la rigida tranquillità di Mark pronta ad degradare nella follia (un Sam Neill in una delle due migliori interpretazioni), è anch’essa magistrale, tanto da presentare echi di ciò che lo renderà celebre quasi quindici anni dopo (l’assicuratore de Il seme della follia di John Carpenter). La possession della moglie diventa, per lui, pura ossessione: ossessione per le sue ordinarie ambizioni (il lavoro, la carriera, l’amore, la famiglia), che lo porteranno inevitabilmente all’autodistruzione.

    Per un film del genere, poi, qualche parola va inevitabilmente spesa per il finale: i due coniugi sembrano avere un doppio, apparentemente frutto di una mente ormai distorta dalle circostanze. Nel momento in cui tali doppi si sostituiscono agli originali, arriva il momento dell’apocalisse, simboleggiato dal suicidio finale del figlio (davvero terrificante nella sua semplicità) e dall’incontro tra Helen ed il doppio di Mark, una versione algida e sulfurea che sembrerebbe “nata” dal mostro partorito da Anna, che preannuncia una spettacolare quanto spiazzante apocalisse (le bombe che si sentono esplodere dall’esterno).

    Se è genericamente improprio chiamare horror Possession di Zulawski, dunque, può essere quantomeno sensato notare che le sue dinamiche narrative sono, a tutti gli effetti, quelle degli horror, a partire dal crescendo da una situazione ordinaria ad una decisamente imprevedibile. Molti passaggi del film sembrano non causali e questo, oltre ad essere tipico del genere, è anche tipico del periodo. Del resto ci troviamo negli anni del Fulci dell’assurdo visto nel cult …e tu vivrai nel terrore! L’aldilà, e proprio con quest’ultimo si potrebbero scovare interessanti parallelismi; su tutti, il finale apocalittico che, almeno in parte, li accomuna: l’aldilà del quadro, simbolo della conclusione dell’esistenza terrena, e l’apocalisse di Possession, simbolo dell’isolamento e della solitudine.



    Grotesque

    Un chirurgo dagli istinti perversi (oltre che estremamente violenti) rapisce un’innocua coppietta allo scopo di seviziarla senza pietà…

    In breve. La trama è più o meno un pretesto: proporre nel 2009 la non-storia di un folle chirurgo amante del sangue e del sesso, di fatto, rischia di ricalcare i più scialbi clichè del genere: il risultato finale prodotto dal regista Kôji Shiraishi (lo stesso di Noroi – The curse – tutta un’altra storia, per la verità) non è completamente da buttare, ma possiede difetti grossolani e sconfina parecchio nella monotonìa e nella violenza fine a sè stessa. Da guardare con (molta) cautela e considerare, a mio avviso, un esperimento malriuscito – o se preferite, un’occasione persa.

    “Eccitami con la tua voglia di sopravvivere.”

    Grottesco: letteralmente indica qualcosa di “insolitamente deforme e innaturale, bizzarro, inspiegabile e caricaturale al punto tale da andare contro il senso comune, innescando una comicità allibita“. Questa definizione rischia di far sembrare questo monocorde delirio visivo di Shiraishi ciò che non è: ciò che rimane allo spettatore dopo la visione, nella maggioranza dei casi, sarà un senso di scialbo nichilismo oppure – in molti casi – di vuoto disgusto. Un film vietato in Inghilterra, stroncato a mani basse dalla maggioranza della critica e che, effettivamente, non racconta nulla di memorabile: senza contare che, inoltre, l’intento sottilmente sotteso alla storia (contrapporre la solitudine lacerante e psicotica del maniaco al feeling dolce e bambinesco di una coppia al primo appuntamento) è stata un’occasione clamorosamente persa. Roba per cui, a conti fatti, tanto vale riscoprire Takashi Miike, l’artefice di altrettanto brutali ma ben più feroci e incisivi saggi sull’argomento (Audition).

    Da un lato, quindi, quel titolo si addice brutalmente al tipo di film che viene riprodotto, anche se poi – a ben vedere – c’è poco di caricaturale, mentre fin troppo delle crudissime sequenze sconfina nella pornografia horror (come da definizione: raffigurazione esplicita): non che ci sia qualcosa di immorale in questo a prescindere, per quanto compiacersi della violenza (e del sesso) rappresentato rischi di banalizzare la questione, riducendo il tutto ad un film per voyeur sadicamente incalliti (e non certo per amanti di adrenalina, emozioni forti o simbolismi politico-sociali).

    Anzi, aggiungerei che per ridere di una pellicola del genere (con l’unica eccezione della folle conclusione della mattanza, quella sì tanto grottesca da rivaleggiare con la testa “volante” di Zombi 3) bisognerà avere un innato gusto per l’exploitation più crudele mai realizzata. Quello che si vede all’interno del film, incentrato interamente sulle sevizie ad una giovane coppia da parte di un “mad doctor” piuttosto “scoppiato” (oltre che affetto da perversioni sessuali davvero terrificanti), nonostante la parvenza “fracassona” è poca roba: l’horror non è violenza gratuita, nè gusto di mostrare il non-mostrabile tanto per fare scalpore, e questo va tenuto presente soprattutto se conoscete poco (o nulla) il genere. La componente porn surclassa alla fine quella torture (che è pur massicciamente presente), e riduce i corpi dei due neo-amanti a due carcasse inermi, mutilate, seviziate ed umiliate in tutti i modi possibili senza un vero motivo: ecce homo, questo è Grotesque, ed è inutile rigirare diversamente la questione. È chiaro che un film del genere rappresenta un caso piuttosto limite (anche se non certo l’unico) di gore continuo, incessante e – nel caso specifico – apertamente fine a se stesso: l’effetto grottesco, paradossalmente, rischia pero’ di perdersi del tutto, con l’ovvia reazione di sdegno da parte di critica e pubblico che lasceranno – secondo me in 8 casi su 10 – disgustati la sala. Eppure, condensando la pellicola ad esempio in un cortometraggio – e risparmiandosi scene piuttosto inutili e “di cassetta” come la solita motosega da chirurgo (!) e la terribile sequenza di forced masturbation – sarebbe potuto risultare un film più valido ed incisivo: cosa che “Grotesque“, a conti fatti, non riesce ad essere.



    Macchie solari

    A molti il nome di Mimsy Farmer evocherà la splendida interpretazione all’interno dell’argentiano “Quattro mosche di velluto grigio”: per tutti gli altri basti sapere che si tratta di un’attrice certamente convincente, e qui molto ben caratterizzata, oltre che dotata di una bellezza credibile e poco convenzionale. Assai distante, quindi, dai canoni stereotipati della cinica e spregiudicata, tipica dello spaghetti-thriller anni 70.
    Roma: la protagonosta Simona Sano (nomen omen) sta lavorando alla sua tesi in medicina, indagando le differenze tra suicidi apparenti e reali, e si imbatte in strane allucinazioni in cui vede i cadaveri dell’obitorio rianimarsi, sorriderle (una scena davvero disturbante!) e, non paghi, iniziare a fare allegramente sesso tra di loro. Tali visioni sono correlate con la personalità complessa della donna, il cui carattere unisce profondità e deliri violenti a causa di frustrazioni recondite di natura sessuale. In tutto questo si cerca una spiegazione ad una catena di suicidi che sembrano crescere in modo esponenziale, mentre il regista suggerisce che siano correlati con il caldo asfissiante di quei giorni e, manco a dirlo, al fenomeno delle macchie solari. Un inizio film “pompatissimo”, con una catena di tre omicidi-suicidi che avvengono senza premessa e completamente “a crudo”: il tutto fa presupporre il meglio, questo Crispino ci sa fare sul serio e già questo, da solo, è un fatto importante.

    A riguardo del titolo, per la cronaca, il sito Exxagon specifica giustamente che quelli mostrati nella pellicola sono in realtà brillamenti e non macchie solari (la differenza tra i due fenomeni mi pare interessante, ma troppo “tecnica” da indagare qui: per me, per voi e per la mia sostanziale incapacità di approfondirla). Tutto il film cerca di spulciare ogni dettaglio per comprendere il motivo per cui avvengono tali morti, senza mancare di momenti deboli che fanno un po’ crollare l’interesse del pubblico. Ma c’è un motivo, a questa noia, specie per il pubblico abituato al sovrannaturale fine a se stesso (vedi un qualsiasi horror “di cassetta” coi fantasmini o con lo spirito della classica bambina che spaventa tutti). La spiegazione è umana, dunque entrano in ballo esistenzialismo, sociologia, filosofia e tutti quegli aspetti “pensati e pensanti” che rendono le opere “difficili da digerire” agli occhi dei tanti superficiali che ci sono in giro. In fondo la razionalità che lotta coraggiosamente contro le varie allucinazioni irreali diventa una possibile chiave di lettura di questo film, così come diventa la chiave di volta per comprendere Simona Sano: donna che soffre, incapace di esternare le sue sofferenze e tragicamente vittima della propria bellezza.

    In fondo le “macchie solari” potevano essere rimpiazzate dalle maree dei giorni dispari, dalle fasi lunari, dagli influssi magnetici di Marte o anche dagli UFO. La spiegazione realista degli eventi, dunque, cozza solo apparentemente con i presupposti della storia stessa, la quale – come è stato scritto un po’ pedissequamente in giro – tenderebbe ad annoiare nella seconda parte. Secondo me, semplicemente, non è vero. E tanto per non passare per il radical-chic che i film li capisce solo lui, mantiene vivo l’interesse il gioco morboso di mostrare/non-mostrare le grazie della Farmer, che in questo film – quasi a volerla esasperare ad ogni costo – cercano di farsi un po’ tutti (l’amante, il prete, l’amico del padre, l’infermiere all’obitorio ed il padre stesso).

    Gli innumerevoli momenti di tensione del film sono estremamente espliciti e fanno paura con gusto, poichè oltre agli organi ben in vista si esplicitano sul filo del rasoio di varie ambiguità, nel gioco argentiano del “tutti sospettati”, fino alla scoperta finale. La spiegazione sarà, tutto sommato, semplice o semplicistica, ma come detto prima va bene anche così.

    “Macchie solari” (con buona pace dell’equivoco astrofilo) è a mio avviso un buon film, registra momenti di tensione fuori dalle righe, possiede quel tocco bizzarro (weird) che lo rende interessante anche ad una visione successiva alla prima, ed è recitato bene da quasi tutti i protagonisti. Sicuramente merita di essere rivalutato e rivisto.



    Society

    Billy è di famiglia benestante nell’America di fine anni ’80: dovrebbe essere felice, godersi le sue giornate spensieratamente e passare le notti con le donne più belle di Beverly Hills: eppure qualcosa lo turba, non dialoga coi genitori, vive ambiguamente i propri rapporti ed è tormentato da paure inspiegabili. Un orrore incredibile sta per spalancare le porte contro di lui..

    In due parole. Prima parte da telefilm, seconda grand guignol a coronare un notevole horror-satirico di Yuzna contro l’ipocrisia della società capitalistica.Una delle chicche orrorifiche del cinema americano anni 90.

    Già John Carpenter aveva espresso con grande maestria il rapporto conflittuale tra sfruttati e sfruttatori nel mondo degli yuppie, basandosi sulle fondamenta degli zombi mai troppo compresi di George Romero. Yuzna, sceneggiatore promettente di splatter inquientanti e fan di Lovecraft della prima ora, decide di girare una sostanziale satira contro il mondo finto ed ipocrita della borghesia americana. Il soggetto fu firmato da Woody Keith e Rick Fry, e crea i presupposti – grazie ad una regia solida e ad effetti speciali da manuale – per un film divertente e pauroso al tempo stesso, forse non sempre ben interpretato ma con varie “macchiette” davvero irresistibili. Lo spettatore passa mezzo film a chiedersi cosa veda Billy, se si tratti di paranoia o chissà che altro: le conclusioni horror probabilmente oggi appaiono scontate, ma si tratta pur sempre di un’idea originalissima, e mai realizzata prima. Come già in “Essi vivono“, le apparenze ingannano lo stesso protagonista, che sospetta che i suoi familiari covino qualcosa di mostruoso: ma, dal loro punto di vista, si tratta di comuni paranoie adolescenziali, che scemeranno non appena Billy sarà introdotto nella Società che conta. Ai suoi occhi, nel frattempo, si compone un puzzle infernale che ogni volta sembra chiaro, e che inevitabilmente viene scombinato da una forza esterna: la stessa che lo tormenta dall’inizio, e che rende terribile il suo passaggio da “ragazzo qualunque” a “persona che conta”. Terrorizzato da quel mondo adulto in cui non riesce a riconoscersi, viene contattato dall’ex fidanzato della sorella, che gli fa ascoltare una cassetta registrata piuttosto inquietante: in essa ascolta la propria famiglia che racconta l’iniziazione nella società della ragazza come un’autentica orgia, a cui avrebbero partecipato addirittura i suoi genitori ed un bullo che lo tormenta. Sospetti paranoici o realtà?

    “Mamma, papà, vorrei parlare un po’ con voi…”

    E’ ovvio che Yuzna intende costruire una metafora piuttosto esplicita del mondo borghese, un mondo divora chiunque non si omologhi ai suoi canoni, e questo dopo averlo adulato con mille “giocattoli” irresistibili. Ma il regista opera in tal senso con grande stile, facendo sorridere ogni tanto e senza appesantire mai lo spettacolo con slogan politici, anzi rivelandosi apertamente non politically-correct nel finale. In particolare “la società che uccide per mantenere segreta la sua esistenza” non deve essere intesa in senso cospirazionista: questo è il “manifesto” di Yuzna, che si scaglia contro la società in cui viviamo tutti, chi da un lato, chi dall’altro della barricata. Dunque chi si omologa avrà agi, un posto di lavoro assicurato, bellezza esteriore e ricchezza materiale: chi invece si azzardi anche solo a discutere l’assunto capitalistico verrà letteralmente… mangiato vivo. Tale aspetto, a scanso di possibili equivoci, viene specificato nell’inizio della scena conclusiva, quando Billy è additato come appartenente ad una razza diversa per “addestramento“, un piccolo insieme di persone della razza umana che sottomette tutti gli altri e detta subdolamente legge.

    Una visione non banalmente romantica, quella del ragazzo, dato che non desidera un mondo ideale di persone simili a lui: semplicemente uno in cui sia lecito vivere la vita vera, umana, fatta di complicazioni, problemi, pulsioni e naturalmente di sesso (il vero leitmotiv di Society, probabilmente). Insomma, quell’umanità che dovrebbe essere ovvia e che invece ai genitori, alla sorella ed agli altri “normali” evidentemente manca, e gli fa addirittura venire il sospetto di relazioni incestuose tra i suoi familiari. In questo scenario anche il rapporto “normale” con Clarissa – interpretata perfettamente dalla conturbante playmate Devin DeVasquez – appare pauroso, visto che anche lei sembra parte di quel mondo. In fondo se la Società, intesa come insieme di rapporti umani tenuti assieme dalla convenienza, della speculazione e dall’opportunismo, impone universalmente dei modelli disumani, Yuzna suggerisce che il tutto non puo’ che sfociare nella perversione, nel cinismo e – neanche a dirlo – nel cannibalismo. La “grande orgia” e la “cosa informe” degna dei peggiori incubi lovecraftiani è, in effetti, una letterale fusione dei corpi dei borghesi-mutanti: flaccidi, umidicci, solidali tra loro e propensi a cibarsi dei poveri, degli oppressi e di chi non sta alle loro “regole”. Più chiaro di così, si muore (è proprio il caso di scriverlo).

    Vale la pena aspettare la fine del film (il gore nella prima parte è praticamente assente), perchè le scene conclusive sono realmente disturbanti, tutte figlie di allucinazioni horror sul corpo umano (mani che escono dalla bocca, persone rivoltate letteralmente come guanti, deformazioni e contorsioni). Non mancano momenti surreali, come le allucinazioni di Billy che vede ninfomani in pose insolite un po’ ovunque (colpa degli squilibri ormonali della sua età!), senza contare la rappresentazione stra-cult dell’irreprensibile padre di famiglia, ovvero una letterale… “faccia da culo”! Anche se la forma è ironica – e richiama una commedia americana – il sottotesto è serissimo e viene affrontato in modo irreprensibile: il pubblico si diverte, e tutti (o quasi) sono soddisfatti dalla visione. Ogni appassionato di horror dovrebbe vedere Society, poi ovviamente la scelta finale spetta a voialtri.

    L’intera vita delle società, in cui dominano le moderne condizioni di produzione, si annuncia come un immenso accumulo di spettacoli. Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione (G. Debord, “La società dello spettacolo”)



    Baskin

    Un gruppo di poliziotti riceve una chiamata di emergenza per recarsi in un edificio abbandonato: troveranno ad attenderli un gruppo di efferati individui.

    In breve. Incubo surreale per un gruppo di poliziotti, costretti a fronteggiare un nemico apparentemente invincibile e, forse, la propria coscienza. Soprattutto per appassionati di horror senza remore, con livello di gore abbastanza alto.

    Coproduzione turca e americana e girato in sole 28 notti, Baskin è un buon horror recente dal ritmo incalzante e con una certa dose di surrealismo, che poi si traduce in sogni (o allucinazioni) che vive uno dei protagonisti (neanche a dirlo, quello con cui buona parte del pubblico tenderà ad identificarsi). Un thriller a sorpresa con presupposti da mistery movie puro, con tanto di poliziotti in atmosfera pulp decisamente umanizzati e, per certi versi, non esenti da difetti – tanto da evocare i più celebri anti-eroi di John Carpenter, regista certamente influente su questo lavoro a cominciare dal compromesso, più che riuscito, tra atmosfere oniriche, elementi simbolici (le rane) e splatter. Film che, per inciso, è tratto da un corto omonimo dello stesso regista, che viene qui sviluppato per esteso con integrazioni e modifiche dove necessario (nel corto, ad esempio, il Padre è una Madre).

    C’è da dire che il film non potrà passare indifferente agli occhi del pubblico, o quantomeno al cospetto di quello orientato sugli horror con elementi apparentemente sconnessi e, in certi caso, a dispetto della causalità degli eventi raccontati. A questi personaggi così umani quanto brutali, come vedremo, il destino sembra aver riservato uno dei più crudeli avversari da dover fronteggiare, caratterizzato dalla figura del Padre (ispirato, a quanto pare, al Colonel Kurtz di Apocalypse Now) e dei suoi deformi adepti: il Padre, peraltro, è anche l’unico personaggio in grado di dare un indizio concreto sul senso del film.

    Sembra che il tutto ruoti sulle efferatezze di una crudele setta, che esplica il proprio culto attraverso sanguinolenti rituali, e fa assumere ad ogni atto, in modo forse non troppo esplicito, un significato di espiazione da qualche peccato commesso in passato. Senso che, al netto delle mie (come di altrui) speculazioni, ogni spettatore dovrà saper trovare, soprattutto per il finale sui generis che chiarisce alcuni punti della trama e fornisce quello che in linguaggio urban viene definito mindfuck: un elemento, quello onirico e spazio-temporale in particolare, che ridefinisce l’ambiente e le circostanze, chiarendo ed forse razionalizzandone certi aspetti. Questa è forse la cosa che ho apprezzato di più a caldo, anche se per esperienza so che si tratta di un aspetto soggettivo che non tutti coglieranno. Che poi molti non abbiano tempo, voglia e volontà di coglierli è altra storia, peraltro ben nota per tutti gli horror surrealisti di cui sono a conoscenza, ma di questa chiusura imprevedibile ed efficace va ampiamente dato atto al regista.

    In un’intervista a Fangoria a riguardo, il Evrenol ha indicato Descent e Frontiers come sue principali ispirazioni per questo film: chi ne ha visto almeno uno, a questo punto, potrà farsi un’idea coerente di ciò che vedrà. Avrei aggiunto – parere personale, of course, dato che non ho la pretesa di saperne di più del regista – anche Hellraiser alla lista delle influenze, sia per le atmosfere cupe che per i continui viaggi tra sogno, dimensioni e realtà e sia, forse soprattutto, per la figura del padre, che non avrebbe certo sfigurato come cenobita. Non approfondisco il discorso per evitare spoiler involontari, ma per completare la lista di analogie ci sarebbe da citare il sottovalutato Shadow di Zampaglione, che certe intuizioni e simbolismi li aveva (ri)proposti già anni prima.

    Non mancano in Baskin (secondo Nocturno il titolo potrebbe fare riferimento alle parole repressione o coercizione) i punti di contatto con altri film horror, e sarebbe impossibile – quantomeno a livello di impianto narrativo – non citare anche il recente 31 di Rob Zombi, molto simile nella situazione quanto meno grottesco e, se possibile, più sinistro. Molto probabile che Zombi abbia potuto ispirarsi almeno in qualcosa per questo singolare lavoro per il suo ultimo film: del resto il cinema di genere è (anche) un gioco di rielaborazioni. Al di là dell’impianto narrativo, la situazione sa apparentemente di già visto, per quanto l’attenzione resti sempre viva: questo soprattutto perchè i protagonisti sono dei poliziotti, e non i classici giovinastri in cerca di avventure e dal destino segnato. Ciò a mio avviso tende a proporre chiavi di lettura molto varie, forse al di là della classica redenzione e catarsi legata ad analoghe “discese all’inferno”: abbastanza, insomma, per dire che si tratta di un buon film.



    Silent night, bloody night

    Una casa utilizzata come manicomio viene rimessa in vendita, 20 anni dopo, dall’unico erede rimasto; contemporaneamente un killer internato altrove riesce a scappare, e non sembra gradire la presenza di ospiti nella casa…

    In breve. Proto-slasher molto interessante, oscuro e sinistro: archetipico di un certo modo di fare horror tra personaggi, scenari e situazioni tipicamente americane. Un cult molto valido e, nel suo genere, da riscoprire ancora oggi.

    Girato con circa 295,000 dollari, è noto con svariati titoli (Death House, Night of the Dark Full Moon, Blutnacht – Das Haus des Todes); Silent night, bloody night, nonostante non sia mai stato doppiato in italiano, è uno di quegli horror seminali, che fanno della storia intricata e delle riprese in soggettiva del killer uno dei propri punti di forza. Se il tono è quello classico dell’apparente normalità di persone comuni, capaci di nascondere i peggiori e più macabri segreti, in questo il film di Gershuny non fa eccezione, anzi si pone in modo primordiale rispetto ai successivi film su questa falsariga. La sua originalità e la sua narrazione dal punto di vista di Diane (), figlia dello sceriffo della città, sono ciò che riescono a renderlo una piccola e poco conosciuta perla del genere. Se nella storia sono evidenti echi quasi argentiani (un passato oscuro da ricostruire, personaggi che non sono quello che sembrano e così via), ancora più clamorosa è la scelta della soggettiva sull’assassino e le sue inquietanti telefonate, che evocano molto da vicino quelle di Black Christmas di Bob Clark (che uscirà solo un anno dopo). Al tempo stesso, Silent night, bloody night non è semplicemente un horror di Natale (tale componente è quasi accidentale, in effetti, rispetto all’intreccio), nè un banale body counter di omicidi senza un vero filo logico, ma si basa su una storia ben ritmata, credibile, ben congegnata e – anzi – quasi insolitamente complessa per un film del genere.

    Silent night, bloody night si vide nei drive-in americani per tutti gli anni ’70, per poi diventare di pubblico dominio (formalmente è uscito come Zora Investments Associates) ed essere riscoperto negli anni ’80, anche grazie allo show televisivo americano “Elvira’s Movie Macabre” che ne parlò in qualche puntata. Noto come horror natalizio, come dicevo anche prima il periodo in cui è ambientato è abbastanza relativo, anche se ovviamente contribuisce a costruire un gioco di richiami e suggestioni e, in definitiva, rendere più spaventoso il plot: del resto anche Profondo Rosso iniziava nei pressi di un albero di Natale, ma restano in pochi a ricordarlo per questo motivo.

    La narrazione viene inizialmente affidata a Diane Adams, la figlia dello sceriffo che racconta la storia come un flashback, quindi dopo averla vissuta personalmente. La storia è legata alla vendita di una vecchia casa, appartenuta al misterioso Butler (morto ufficialmente per ustioni accidentali), di cui il nipote non sembra sapere nè aver voglia di parlare. Sarà proprio lei ad interessarsi attivamente alla vicenda, dopo che un nuovo omicidio è avvenuto nella stessa casa ad opera di un killer che sarà svelato solo nel finale. Un film seminale, influente per buona parte dell’horror successivo, e con un suo senso ed identità: da riscoprire ancora oggi, con l’unica pecca che non sia disponibile in italiano.

    Il film in compenso è di pubblico dominio, ed è disponibile gratuitamente su Youtube.



    Suicide club

    Tokio sembra essere in preda ad un’epidemia di suicidi: prima 54 adolescenti si gettano sotto un treno, poi un’infermiera si lancia nel vuoto e degli studenti emulano il gesto dal balcone della scuola. Un poliziotto indaga sulla questione scoprendo verità inquietanti…

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    In breve. Diffidate da qualsiasi recensione troppo entusiastica perchè il film, certamente non brutto di suo, non riesce a cogliere nel segno. Troppi accenni, troppe cose sconnesse, un’eccessiva smania di stupire e delle interpretazioni non esattamente di livello riescono a far affondare un’idea che forse, in mano ad altre menti, sarebbe diventata decisamente accattivante.

    Diretto nel 2002 dal visionario Shion Sono (già noto per il disturbante Strange circus), Suicide Club (noto anche come “Suicide Circle“) è un film riuscito solo a metà: se da un lato scatena suggestioni impulsive (la paura del suicidio è senza dubbio uno dei tabù più colossali della società moderna), e nonostante riesca a divagare con una certa coerenza sul tema, oltre che con un sentito gusto per il grottesco e l’esagerazione, ne risulta una pellicola ampiamente sopravvalutata e sopravvalutabile. Non male il livello di splatter, per quanto molte scene siano ai limiti dell’artigianalità più grossolana (quasi a livello dei b-movie horror italiani anni 80); decisamente più suggestive molte delle scene topiche, tra cui il suicidio in metropolitana che vediamo all’inizio, e le morti più improbabili che rivaleggiano con quelle viste in “Final Destination“. La parola “capolavoro”, tanto abusata in queste circostanze, ci deve piuttosto ricordare che non affatto basta scomodare temi forti e coniugarli con mano esperta per essere considerati cineasti di livello.

    Questo difetto, a mio avviso, si concretizza per almeno due ragioni: da un lato non si capisce quasi per nulla dove il regista sia voluto andare a parare (cosa piuttosto chiara, invece, nella metafora circense del succitato film), dall’altro la trama appare piuttosto sconnessa, caotica, in certi passaggi si fatica a capire cosa stia succedendo – il finale è visionario o reale? Nonostante alcune trovate decisamente crudeli quanto azzeccate – la cintura di pelle umana è destinata a scolpirsi nella memoria di tutti gli spettatori – vi sono troppi momenti di sottovuoto spinto che distraggono l’attenzione del pubblico, e non riescono a mio parere a coinvolgerlo come si dovrebbe. Eppure le idee non mancano, del resto il tema era parecchio ghiotto: il focus è posto sull’alienazione dell’uomo moderno, svilito da mille giocattoli futili e disumanizzato al punto di sentirsi “solo tra la folla” come unica, autentica, condizione di esistenza. Una solitudine lacerante che porta a voler terminare la propria vita anche senza una reale ragione, ma semplicemente perchè la società lo imporrebbe con i suoi ritmi pressanti ed autodistruttivi. Molti altri registi hanno lavorato in questa direzione, e pur sviluppando trame spesso ai limiti dell’astrattismo (penso a Tetsuo, ma anche a Izo ed ovviamente a Der Todesking) sono riusciti a cogliere nel segno: Sono, al contrario, concretizza diversi incubi metropolitani moderni in perfetta penombra, e mostra teenager incoscenti propensi a trovarsi una fidanzata con la stessa tranquillità con cui commetterebbero un suicidio di massa. Del resto non era male lasciare un bel punto interrogativo sulla natura dell’eventuale setta che sembra aver condizionato le menti dei giovani mediante internet: ma i particolari del puzzle appaiono distanti tra loro, troppo per parlare di un film davvero memorabile.



    Strange Circus

    Una storia cattiva, disturbante e ricca di shock emotivi per un ennesimo incredibile film nipponico.

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    In due parole. Riduttivo definirlo horror: un film completo, coinvolgente e altamente disturbante (sfido chiunque a proseguire la visione entro la prima mezz’ora). Per il pubblico dallo stomaco d’acciaio, s’intende, un’opera perfetta e riuscitissima, che metaforizza l’esistenza come se fosse un’esibizione circense. Da giudicare dopo averlo visto per intero o, in alternativa, rinunciare del tutto all’impresa.

    Dopo aver assistito a quello che molti indicano come il capolavoro spiazzante di Shion Sono, non mi sento in piena coscienza di consigliare questo film al primo che passa per la strada. Non che sia brutto, intendiamoci, ma è davvero una cosa che tocca le viscere per la sua crudeltà. Un po’ come avvenuto per Il centipede umano e per A Serbian Film – due “pugni nello stomaco” tutto sommato visionabili con qualche precauzione; qui siamo di fronte ad un film che esprime l’eccesso della violenza domestica, espressa in tutte le forme possibili (padre-figlia, madre-figlia, padre-madre). Il contorno grottesco delle figure circensi, del resto, servono molto poco a creare un clima caricaturale, perchè nessuno – credo – avrà niente di cui sorridere per circa due ore. Soprattutto in Italia, dove siamo molto poco abituati a vedere film impostati in questi termini brutali, presi come siamo dai rigurgiti pseudo-intellettualistici dei trentenni che si comportano da tredicenni, e questo dovrebbe mettere in guardia il pubblico meno avvezzo al cinismo su pellicola. E attenzione, non parlo della violenza bizzarra alla Tarantino bensì di quella realistica, cattiva ed amara di American History X, per fare un esempio ben noto, elevata all’ennesima potenza.

    Stange circus narra, molto in breve, la vita di una povera ragazzina di appena dodici anni (Mitsuko), turbata dal padre pervertito il quale non solo la obbliga ad assistere ai rapporti sessuali con la madre, ma inizia a dedicarsi attivamente all’incesto. Il segno di questa esistenza terrificante sembra riversarsi nel racconto di una scrittrice disabile: dunque tra uno scambio di identità e l’altro, come chiedono nel film stesso, “cosa è reale e cosa non lo è“? La cosa davvero sconvolgente, al di là dell’argomento decisamente morboso – che nel nostro paese avrebbe implicato articoli velenosi, polemiche nella TV spazzatura, richieste di ritiro dalla circolazione, accuse di oltraggio alla decenza, agli uomini, agli animali ed agli Dei – è stata a mio parere la capacità di Shion Sono di affrontare il tema spinoso (la pedofilia) senza sconfinare in dinamiche che qualcuno avrebbe trovato quantomeno ambigue o peggio autocompiaciute. Sì, perchè le scene realmente disturbanti nella realtà visiva vedono il cinico preside (il padre), poco prima intento a fare moralismo sul bene e sul male e ad inneggiare all’amore verso i fanciulli – fare sesso con la consorte (la bella Masumi Miyazaki) mentre è in corso uno scambio di ruoli tra madre e figlia. Lo scambio avviene perchè il brutale padre-padrone rinchiude l’osservatrice (moglie o figlia, a turno) dentro la custodia di una viola, nella quale ha praticato un buco, e forzandola ad assistere all’amplesso. Tutto appare stravolto, a quel punto, per la piccola Mitsuko: anche il rapporto con la madre, inizialmente mite ed affettuosa, che diventa gelosa e indisponente nei suoi confronti. È l’idea di fondo ad essere profondamente disgustosa: e il tutto non diventa un mero pretesto per fare snuff, sia ben chiaro, perchè costruisce i presupposti solidi per un finale che, alla fine, compare limpido sotto gli occhi dello spettatore. Non aggiungo altro, per non rovinare la visione a nessuno, permettendomi di ricordare che lo stesso regista ha affermato che non è l’amore morboso verso i fanciulli ad essere il fulcro di questo suo lavoro.

    Del resto, circa trenta anni fa, per il semplice sospetto che un minorenne avesse visto il bel corpo di Barbara Bouchet (cosa che avrebbe potuto fare ugualmente con una rivista qualunque, per la verità) Lucio Fulci subì un processo in piena regola, nel quale dovette dimostrare che il minore che porta l’aranciata alla procace protagonista di “Non si sevizia un paperino” fosse stato sostituito da una controfigura. Nessuno vuole processare, si spera, Shion Sono, osannato come regista horror ma, in verità, autentico cinesta fuori dalle righe, capace di strutturare le sequenze, creare ambienti da sogno (o da incubo), confondere i livelli della realtà e dare il giusto input agli interpreti. Qualche reminiscenza che sconfina in Shining di Kubrick (i corridoi lunghissimi nei quali si consumano i misfatti) e qualche altra chicca sparsa nel film contribuiscono ad autorizzarmi ad affermare che “Strange circus” sia un grandissimo (e molto incompreso) lavoro. Non per tutti, anzi i più sensibili stiano alla larga, questo è certo, ma qui resto dell’idea che Sono abbia girato il suo personale “Arancia Meccanica“; e, in caso, scusate se è poco.



    Human centipede

    Uno scienziato pazzo rapisce turisti allo scopo di tentare un singolare esperimento, ovvero un centipede umano…

    In breve: difficile dare una valutazione sintetica in assoluto. A quanto si sente in giro per metà degli spettatori risulterà indigesto ed inguardabile, per l’altra metà sarà un’esperienza insolita (dire “piacevole”, in questo caso, è decisamente improprio).

    La storia si sviluppa nel momento in cui due ragazze americane si perdono in un bosco della Germania (quanto tuo zio ti diceva “alla tua età non sai nemmeno cambiare una gomma” aveva un po’ ragione…) ed incontrano casualmente, invece del principe azzurro, un vecchio chirurgo misantropo di nome Josef (sic). Questi, senza pensarci troppo, narcotizza le due ragazze e le assicura a dei lettini da ospedale, il tutto allo scopo di tentare un incredibile esperimento: realizzare un centipede umano, una specie di gigantesco insetto-umano che coinvolge anche un terzo ragazzo. Non è difficile immaginare come abbia intenzione di collegare i tre sventurati, visto che il suo “sogno” è che la creature disponga di un’unico apparato digerente. L’operazione viene dettagliatamente descritta mediante appositi lucidi alle tre vittime, che tentano ripetutamente la fuga e dovranno alla fine sottoporsi a questa tortura, di cui il lato strettamente chirurgico, descritto con dovizia di particolare, è espressione grottesca e delirante di un destino quasi peggiore della morte.

    Quello di The human centipede è – potremmo dire, senza timore di blasfemia – un sostanziale body-horror, privato della vena tecnologica cronenberghiana ed avvolto in una spirale di cinismo e disgusto senza limite: Six riporta la carne alla carne, riduce dei corpi nudi a bestiame da macello e senza, per questo, voler intendere alcun sottotesto sociale (almeno in apparenza, come invece ha fatto in modo eccellente ed altrettanto disgustoso A serbian film). Se si volesse parlare di originalità, si potrebbe tranquillamente farlo: il problema è che comunque emergono un po’ di limiti, più che altro concettuali: ok, va bene il disgusto, l’orrore esplicito, la perversione feticista come metafora di sopraffazione, ma serve dell’altro altrimenti il rischio noia è dietro l’angolo.

    Il film passa inesorabile, con alcune sequenza insolitamente indigeste e si attende la fine del film, freneticamente, come una sorta di liberazione. Tom Six non possiede nulla dell’eleganza di Cronenberg, s’intende, tantomeno credo che aspiri a nulla di proprio del canadese, ma il punto è anche un altro: quando si evocano certe cose, a mio avviso bisogna avere le idee fin troppo chiare, delinare storie, scrivere sceneggiatura che spieghino la storia dei personaggi. Questo, come detto, viene fatto solo in parte, pero’ intendiamoci: “Il centipede umano” non riesce ad essere un film pessimo (nonostante la valutazione scarsina di IMDB, e non solo), e nemmeno a diventare un cult tra qualche decennio (…o magari sì). Ripeto, non è un film da scansare, ammesso pero’ che abbiate lo stomaco di ferro e siate molto amanti dell’horror più estremo. Uno dei tanti film che, come avviene nella tradizione consolidata nei decenni, dice tutto senza, alla fine, dire nulla, confinandosi in un limbo comunicativo che ti fa chiedere ma che cazzo ho visto?

    Ovvio, è un film da evitare nei dopo cena con gli amici che al massimo hanno visto “La macchina infernale“, non è certamente un film per famiglie, non è un horror per bambini (non ha nulla di favolistico: è realismo puro, quanto disgustoso nella sua maniacale descrizione medico-chirurgica. Il regista ha avuto un vero chirurgo come consulente: sì, questo fa molto Cronenberg. Non è assolutamente un film da cineforum, e basta leggere una mitica intervista al regista che afferma candidamente but it’s for fun per capirlo.

    Se poi volete fare gli intellettuali fuori corso all’università, ve ne basti una: due vittime sono americane, una è giapponese mentre il cattivo è tedesco (ovvio, vero? it’s only for fun). Ma poi stop: piazzare dei fondali luminescenti, risaltare il camice del medico in un’atmosfera chirurgica e piazzare un’aquila nazista nella sua casa è un po’ pochino per urlare alla metafora simbolista del secolo. Chiaro che l’horror non ne ha bisogno per forza, pero’ in questi casi se ci fosse giustificherebbe certe efferatezze, che evocano certo torture porn molto istintivo, tipo Grotesque.

    Josef – il medico folle, non spiega perchè agisca in quel; sappiamo che è affetto da varie forme di perversioni, di cui quella sadico-feticistica gioca un ruolo da padrone, ma il discorso finisce lì. Nessuna spiegazione ulteriore, nessun flashback o approfondimento. Il centipede spiazza, nella sua semplice e diretta brutalità, e pure parecchio. Il film procede con un’insistenza – quasi compiaciuta – nel mostrare la continua ed interminabile sofferenza delle tre vittime, senza neanche provare delineare lo spessore dei personaggi coinvolti. Cosa stanno espiando le vittime? Dentro film cruenti come Saw abbiamo il piacere di saperlo, qui no.

    Il senso di liberazione provato nel finale credo che sia qualcosa di universale, così come il notevole twist che si verificherà poco dopo. Così, mentre lo spettatore più sensibile si ritrova con lo stomaco rivoltato, e magari neanche riuscirà a finire di vederlo, quello più propenso all’intellettualismo non troverà pane per i suoi denti. Senso di indefinito, quindi, che poi si materializza nel fatto che siamo lontanissimi dai canoni della black-comedy: c’è poco o nulla da ridere, insomma, a confronto il sadismo di Funny Games è quasi demenziale, e l’unico richiamo che possa venirmi in mente, a parte le citazioni da horror di cassetta anni 70/80, è quello del genere nazi-sexploitation.

    “Il centipede umano” è orrore puro, “divertimento” diretto e crudele, che emana la cattiveria del protagonista: perfetto, inumano, detestabile dal pubblico fin dal primo istante, proprio perchè praticamente privo di debolezze ed umanità. Al tempo stesso rimane in una sorta di purgatorio per indecisi, per cui non si riesce a capire chi si abbia di fronte, e se si debba ridere, vomitare, urlare al capolavoro, scappare o piangere.



    Begotten

    Forse uno dei film più bizzarri e incomprensibili mai visti su uno schermo: mescola al proprio interno trama e messaggi criptici, che diventano chiari (?) solo alla fine, lasciando lo spettatore quasi tramortito. Ce ne vuole, ad essere proprio onesti, perchè un arthouse puro del genere sia seriamente equiparabile alle allucinazioni lynchiane o alle complesse simbologie annidate nei più oscuri horror nipponici o tedeschi: così il pubblico resta annichilito, e della visione probabilmente sopravvive poco o nulla.

    In breve: guardare “Begotten” per intero è un progetto cinematograficamente “suicida”, una “Mission impossible” da effettuarsi con tempi e modi quasi anacronistici, rispetto alla frenesia moderna. Un viaggio di sola andata che potrebbe cambiare per sempre la vostra idea del cinema, o – più probabilmente, forse – farvi maledire Merhige a vita. Se si riesce a vederlo tutto senza sbirciare la trama tanto meglio, ma la mission del film resta sproporzionatamente più piccola rispetto al linguaggio utilizzato.

    “Come una fiamma che brucia l’oscurità, la vita è carne su ossa che si agitano sulla terra“: questa enigmatica frase chiude l’introduzione dell’opera di E. Elias Merhige, regista horror decisamente sui generis, molto debitore dell’espressionismo (suo anche il film L’ombra del vampiro). Il regista di Begotten vuole stupire, questo è certo, e presenta un film essenziale, girato in bianco e nero con lo scopo di disturbare, causare shock e, in certa misura, fare discutere. Ma attenzione: qui non si tratta degli equilibrismi simbolici azzardati da Jorg Buttgereit in Der Todesking, che (nel loro morboso realismo) si mantengono sia pur vagamente comprensibili. La tendenza all’ermetismo in Begottne è ancora più estremizzata, ancora più accentuata nel mostrare crudeltà e violenza, e questo senza che ci siano dialoghi nel film e senza che una trama risulti chiara. Quindi è peggio ancora, se possibile, perchè in più parti lo spettatore non capirà cosa si stia guardando, e non è detto che questo sia un bene: nessun dialogo, nessuna musica, nessun vero punto di riferimento sull’intreccio – se non strane figure mascherate ed incappucciate che sembrano vivere fuori dal tempo. Probabilmente, se non altro, l’espediente per obbligare il pubblico a vedere tutto il film fino alla fine prima di emettere giudizi può (almeno sulla carta) essere considerato interessante.

    Il suicidio di un uomo mascherato all’inizio, il parto di un umanoide tremante, sevizie e violenze di gruppo, rappresentazione di un dolore senza redenzione, senza motivazione, ed ampio spazio alla rappresentazione della natura (tramonti, albe, alberi e vegetazione in generale): per il resto preferisco non raccontare la trama perchè, in fondo, è davvero molto essenziale – e perde parecchio, in qualsiasi sintesi possiate trovare sui libri o nel web – e prova a diventare chiara soltanto alla fine.

    Begotten, in altri termini, non è altro che un’insostenibile carovana di orrore puramente da cineforum, reso certamente suggestivo da determinati tipi di inquadrature ed accortezze stilistiche, ed è fondamentalmente distante da qualsiasi stile riconoscibile: certo, si puo’ parlare di sperimentazione pura, ma questa è un’arma a doppio taglio per cui lo spettatore potrà, in molti casi (e comprensibilmente) abbandonare la visione dell’opera dopo neanche 15 minuti. Prendere o lasciare, insomma.

    Resta il fatto che Begotten è insostenibilmente violento ed esplicito, e va visto con molta attenzione perchè è facile disorientarsi al suo interno. Il rischio è che il tutto venga declassato ad un delirante radical-chic intellettualistico e fine a se stesso: un rischio, a dirla tutta, abbastanza fondato, che serve – più che a sminuire il gusto e le doti artistiche di Merhige, a mettere in guardia il suo pubblico a capire un cinema fuori dal tempo (e non solo perchè film del genere sono rari ed escono fuori ogni 50 anni). Se lo spettatore regge fino alla fine, del resto, solo dai titoli di coda riuscirà a comprendere il senso dell’opera, e non è detto che l’epifania sia del tutto soddisfacente. A molti, tanto per dare un’idea in più, sembrerà di vedere una piece teatrale del Beckett più contorto espressa in chiave horror-concettuale.

    Al di là del tema dell’ambientalismo, secondo me, diventa fin troppo complesso fornire interpretazioni ulteriori che sconfinerebbero, a mio avviso, in discorsi completamente privi di senso. Tutto sommato l’idea era abbastanza buona, e nessuno mi toglierà dalla testa che come cortometraggio sarebbe stato decisamente più efficace (e non necessariamente più appetibile, che è una cosa ben diversa). A dirla tutta, come accennavo poco fa, l’idea è tutt’altro che stupida, solo che Merhige non possiede il dono della sintesi (o vi rinuncia deliberatamente), finendo per girare su una sorta di elitarismo intellettuale. Poi si dilunga troppo a spaventare, disgustare ed insistere su dettagli poco chiari, col risultato che – alla peggio – annoia da morire lo spettatore.

    Le scene hanno comunque una fotografia notevole, tanto che il regista ha affermato che ogni singolo minuto di girato (72 in tutto) ha richiesto ben 10 ore di lavoro in fase di creazione dell’effetto “pellicola consumata” e del tutto priva di mezzi toni. Ad ogni modo un film che gli appassionati di sperimentazioni orrorifiche e psichedeliche potranno gradire e, alcuni, in ogni caso una delle più importanti pellicole di tutti i tempi. I più curiosi, a questo punto, vorranno certamente provare a vederlo.



    Eraserhead

    Henry Spencer è un tipografo che vive in una periferia industriale squallida e povera: invitato a cena dai suoceri scoprirà che la fidanzata ha appena partorito un mutante…

    In breve. Forse la più cupa espressione della complessa poetica di David Lynch: un passo obbligato per la conoscenza del cinema weird da parte di fan e coraggiosi pionieri, tutti gli altri spettatori possono (devono?) fare a meno.

    Eraserhead, fin dal delirante e lungo incipit con la testa reclinata di Jack Nance proiettata nello spazio, delinea l’esordio del regista statunitense in un indimenticabile bianco e nero e ne traccia, seppur in modo sconnesso, tematiche, preferenze e attenzione per le tematiche oscure. “Un sogno di avvenimenti oscuri e pericolosi“, un film che diventa quasi impossibile da raccontare, se non partendo dal fatto che – quantomeno nel cinema caratterizzato da elementi sci-fi o di terrore – è stato enormemente tributato nel seguito: basti pensare anche solo a due titoli, ovvero Tetsuo e Begotten, e chi li conosce capirà l’importanza di una pellicola datata 1977 di questo tipo. Gli elementi comuni con questi due non sono pochi: anzitutto la caratterizzazione fuori dalle righe dei personaggi, ma anche le ambientazioni decadenti e le tematiche, per quanto estremizzate, sostanzialmente da horror “puro” (la dimensione dell’incubo valorizzata all’ennesima potenza). Se nel lavoro di Tsukamoto il focus è pero’ incentrato sulla contaminazione uomo-macchina, mentre in quello di Merhige si narra di una sorta di mito biblico in chiave macabra, in questa circostanza si parte da una situazione apparentemente banale, di tutti i giorni. È il suo sviluppo, lentamente mediato tra incubo e realtà, a risultare del tutto disorientante per lo spettatore (ed è per questo motivo, di fatto, che ho preferito mettere in chiaro all’inizio della recensione che non è un film per tutti, anzi si tratta del più celebre rappresentante dei film weird). Al di là poi dei riferimenti, e del rischio che in queste circostanze lo stesso “non capire il film” possa risultare ingenuamente appagante (con il regista che finisce per mettere simbolicamente “sotto i piedi” il pubblico che lo osanna), Eraserhead è catalogabile come la Pellicola B-izarra per eccellenza. Non è poco, se si considerano le decine di tentativi di realizzare lavori di questo tipo in seguito, che troppo spesso sfoceranno in un linguaggio troppo autoreferenziale e “traumatico” per chiunque (con piccole eccezioni in positivo come Seguendo il sangue di Alberto Antonini). L’elemento sconnesso, irrazionale, carico di simbolismi poco ovvi o, nella peggiore delle ipotesi, un po’ vuotamente art-house – si consolida in questa sede, e non tutti gli spettatori avranno voglia e mezzi per saperlo leggere: tanto che si presentano richiami stilistici all’arte surrealista. Come se non bastasse, si ha spesso la sensazione che “Eraserhead” sia stato girato al rallentatore, imponendo lunghe pause, silenzi assurdi, pianti infantili nella notte e rallentamenti nella trama che conferiscono al tutto un ritmo che, a dirla tutta, a volte vacilla. Il film, immerso in una insostenibile scarsità di dialoghi ed intervallato da lunghissimi momenti “morti”, racconta la storia del mite tipografo Henry Spencer (il “capellone” che vediamo all’inizio). L’uomo vive in una desolata area industriale e, in uno scenario da teatro dell’assurdo (il pollo che stanno mangiando a tavola inizierà a sanguinare), i genitori della fidanzata gli annunceranno la nascita di un figlio.

    Ad esprimere il messaggio principale della pellicola vi è il fatto centrale dell’opera stessa, ovvero che il nuovo arrivato è un mostruoso mutante e questo, senza eccedere in voli pindarici ed associazioni di idee troppo azzardate, sembra voler esprimere l’ansia insostenibile di Lynch per la paternità. Un concetto piuttosto profondo che in definitiva, se veicolato in questi termini, rischia di rimanere confinato in un mondo da “addetti ai lavori”: del resto ci vorranno diversi anni perchè Lynch riesca ad esprimere al massimo grado la propria arte con Strade perdute, e per l’età del film e considerando la carriera del regista ci può anche stare. Il titolo “la mente che cancella”, per la cronaca, fa riferimento all’allucinazione di Henry che sprofonda in un letto, incontra una bizzarra cantante, vediamo la sua testa staccarsi dal suo corpo – su un pavimento a quadretti – ed un bambino che la porta in una fabbrica: qui sarà presto trasformata in una gomma per cancellare, e questo è quanto. La declinazione successiva dell’intreccio, con la scoperta che il piccolo mutante è malato, delinea uno stacco e trasmette la sensazione di aver vissuto solo un incubo che si risolve, tuttavia, in quello che sembra il reale omicidio del figlio del protagonista (da tempo malato). Se nel frattempo non avete perso i sensi per la lettura di alcuni dettagli di questa recensione, sappiate che – come ogni pellicola lynchiana – esistono molti altri dettagli e richiami ad “altro” di cui la pellicola è cosparsa, e solo una visione integrale potrà soddisfare una vostra eventuale curiosità: nel frattempo mi preme aggiungere che non si tratta certamente del miglior Lynch mai visto sullo schermo per quanto, ovviamente, per l’età ed i mezzi i gioco (sempre curati e mai poveristici) “Eraserhead” meriti senza esitazione una visione. I “coraggiosi” del cinema sono stati avvisati…



    A mezzanotte possiederò la tua anima

    Zé do Caixão è il becchino di una piccola comunità brasiliana: miscredente, prepotente e fin troppo sicuro di sè, desidera ardentemente la moglie del proprio migliore amico, e trama un macabro piano per realizzare l’obiettivo…

    In breve. Il cult del regista brasiliano (che arrivò a vendersi la casa pur di avere il budget per girare il film) che inaugura ufficialmente l’horror nel proprio paese. Nella sua modestia di impianto (ma non si tratta di un z-movie come tanti) rimane una perla del genere, molto più sensata, compatta ed accattivante di troppi fiacchi epigoni.

    Il gioco delle origini – quale è stato il primo film di genre Y e/o con X, per intenderci – per quanto riguarda un genere non è mai scontato, nè banale: difficile dire con assoluta certezza, ad esempio quale sia stato il primo film di zombi (secondo alcuni L’isola degli zombi, secondo altri Ho camminato con uno zombi, secondo altri ancora – in senso più lato – Il gabinetto del dottor Caligari per via della presenza della figura di Cesare). Tutto dipende, naturalmente, dall’ottica in cui stabiliamo di volerci porre: e questo A mezzanotte possiederò la tua anima, un titolo da cui traspare l’essenza tenebrosa (ed al tempo stesso artigianale) di un regista che ha consacrato la propria vita all’horror, certamente può considerarsi un archetipo del genere. Questo, ovviamente, nel suo essere squisitamente b-movie e con qualche passaggio non troppo lineare, tutto sommato accettabile per via del livello recitato superiore alla media del genere. Essenzialmente si tratta di una storia dai tratti gotici, incentrata su una feroce profezia che raffigura la vendetta di una comunità, e che può leggersi anche in modo puramente materialistico. Sì, perchè il sovrannaturale tirato in ballo da questo film si trova ad essere abbattuto, fotogramma dopo fotogramma, dallo stesso regista e protagonista José Mojica Marins (dotato sia di buona tecnica di regia che di altrettanto accettabili doti recitative), dopo aver fatto di tutto per costruirli all’inizio, soprattutto mediante la grottesca figura della veggente.

    Il film è diventato un cult non soltanto nel Brasile, peraltro storicamente molto cattolico – tanto da rasentare la superstizione, come viene mostrato nel film stesso – atteggiamento contro cui il regista inventa, interpretandolo egli stesso, la figura di Joe Coffin, un tenebroso becchino temuto dai propri compaesani per la propria arroganza, arrivismo e profonda miscredenza. Eppure la filosofia del protagonista non è affatto fine a se stessa o vuotamente blasfema, tant’è che (per quanto lo dica tra un omicidio e l’altro) i suoi deliranti discorsi includono un sensatissimo sermone in favore della miscredenza, vista come unico baluardo in onore della vita e della libertà dell’individuo. Certo, i dialoghi non sono certo degni di un trattato filosofico sulla morte o di un elaborato concept di genere death metal, ma forse (date le circostanze) è meglio così. È proprio il protagonista, con il proprio fascino magnetico ed un tipo di recitazione quasi da teatro sperimentale, a catturare l’attenzione del pubblico, ed a trascinarlo in un vortice di orrori degno dei racconti di Poe, con un costante riferimento alla religione e qualche trovata che, per l’epoca, dovette risultare decisamente blasfema.

    Fin dalle prime battute del film, dopo un breve monologo introduttivo, Joe (nell’originale Zé do Caixão) mostra il proprio essere ossessionato dalla vita, cercando una donna che possa garantire la continuità della propria specie. Una priorità che si capisce poco in astratto, ma che diventa decisamente più compiuta considerando ciò che il male, in altri film, ha sempre cercato di attuare, ponendo i presupposti per la nascita dell’anticristo (vedi The Omen, L’esorcista, Chi sei?, e non continuo per brevità).

    A suo modo, Zè non è altro che un archetipo di molti villain del terrore che sarebbero usciti molto nel seguito, tra cui metterei certamente Nightmare di Wes Craven (sia per via delle unghie sporporzionate, che della dimensione sulfurea del finale, ambientato durante la notte dei morti, eppure spiegabile anche in modo razionale). Altro particolare curioso – ma probabilmente del tutto casuale – è che la storia di A mezzanotte possiederò la tua anima è abbastanza sulla falsariga di quella di Maniac di Lusting, soprattutto nella narrazione delle conseguenze e seppur con un’ovvia differenza di ambientazione.

    Girato in un bianco e nero che non dovrebbe, almeno sulla carta, impedire di guardare il film con interesse anche al più convinto sostenitore della tecnologia HD, A mezzanotte possiederò la tua anima è un buon b-movie con discreti effetti speciali (per l’epoca), e fa anche parte di una trilogia (i film con lo stesso personaggio sono 12 in tutto); nonostante l’età (fu girato due anni prima de La lunga notte dell’orrore e quattro prima del capolavoro di Romero) possiede ancora intatto il proprio fascino.

    Nota: il film è reperibile su archive.org gratuitamente, con sottotitoli in inglese. Non risultano molto reperibili le versioni in italiano del lavoro, che comunque non è stato ridoppiato e presenta semplicemente i sottotitoli nella nostra lingua. Non tutte le edizioni italiane, inoltre, possiedono sottotitoli, e quasi tutte presentano l’audio originale.



    L’angoscia

    Una madre pazzoide condiziona il figlio mediante ipnosi e lo induce a cavare occhi alle persone; in realtà l’intera vicenda è solo un film che stanno vedendo delle persone dentro ad un cinema, le quali subiranno a loro volta un condizionamento subliminale …

    In breve. Piccola escursione thriller del regista de “Le età di Lulù” piuttosto singolare ed inaspettatamente truce, surreale e a tratti addirittura divertente. I piani della realtà si confondono abilmente senza diventare mai un mero esercizio stilistico: il film avvince e … coinvolge, è proprio il caso di dire, fino all’ultima meravigliosa scena.

    Luna riesce, con questo film, a fare letteralmente il buono e il cattivo tempo, avendo l’idea geniale di innestare abilmente una doppia storia: da un lato un serial killer-infermiere che cava gli occhi delle sue vittime, dall’altro una sorta di suo infelice emulo, accomunato dal fatto di essere succube di una madre autoritaria e che si comporta come l’anti-eroe che ha visto sullo schermo decine di volte. “Angoscia” è interamente incentrato sulla reazione che il pubblico horror innesca nei confronti del cinema che si trova a vedere nelle sale: e infatti il primo cambio di prospettiva mostra le facce disgustate di alcuni giovani, di una coppia di adolescenti e di due adulti alla visione delle sadiche efferatezze del… film stesso! Un lavoro che perde gran parte del suo gusto se viene troppo raccontato (va visto, e solo dopo discusso) e che si incentra sulla meta-realtà così come – in tempi piuttosto recenti – solo Carpenter (penso ovviamente a “Il seme della follia”) ed in parte Argento (penso al sottovalutatissimo Opera) si erano spinti. Ovvero: figurare ed estremizzare a tal punto le paure del pubblico. fino ad arrivare a chiedersi se un film dell’orrore possa condizionarne il comportamento e generare N copycat. Roba che gli psicologi da salotto ci farebbero interi palinsesti TV a forza di masturbarsi, e che messi in scena da un regista di film erotici (a proposito di masturbazione) risaltano in un risultato insperabilmente positivo. Considerando il cammino stilistico avviato da Bigas Luna, uno che non ha certo seguito un percorso di cinema cerebrale o intellettuale che dir si voglia, sembra quasi un atto di accusa contro un certo modo di fare cinema. Ovviamente, e direi per fortuna, così non è, e lo vediamo dalla duplice ironia che caratterizza il finale, e dalla presenza di alcuni personaggi visibilmente contraddittori: su tutti, l’emulo dell’assassino, quello che nella “seconda realtà” continua a ripetere una frase “da film” – “fate come vi dico e nessuno si farà male” – salvo sparare all’impazzata nel mentre ed uccidere alla meno peggio. Per capire ancora meglio di che film si tratti, si consideri dunque l’incipit che ricorda i simil-snuff anni 70 che hanno terrorizzato generazioni su generazioni:

    Durante il film che state per vedere, sarete soggetti a messaggi subliminali e ad una leggera ipnosi: questo non vi provocherà alcun danno fisico o effetti duraturi, ma se per qualche motivo perderete il controllo o sentirete che la vostra mente sta lasciando il vostro corpo… lasciate immediatamente la sala! (la traduzione è mia, ndr).

    Ora non so quanto (e se) Luna creda sul serio a quello che ha fatto scrivere, ma sono pronto a scommettere che il tutto rientri in un piano ben preciso: creare horror di intrattenimento che non sia nè banalotto nè troppo sulfureo, bensì un giusto compromesso che lasci lo spettatore soddisfatto, senza banalizzarlo nè appensantirlo con simbolismi intellettuali che molti hanno voluto trovare per forza fino all’esagerazione. Del resto, vista la pignolerìa e l’esigenza di certo pubblico del terrore, era davvero difficile riuscire nell’impresa – e Bigas Luna, pur essendo fondamentalmente un regista di film erotici, ci è riuscito alla grande. Un ulteriore tocco di satira-parodica condita da humor nero, poi, è presente nella rappresentazione del rapporto tra il figlio nerd e la madre autoritaria, che globalmente non tutti hanno percepito dato che il film è quasi passato inosservato, salvo essere riesumato di recente da alcuni noti siti di recensioni horror.

    “Angoscia” è un piccolo gioiello di terrore, surreale e realistico al tempo stesso, diretto con grande maestria ed abilità ed interpretato con lo spirito di uno slasher anni 80: semplicemente imperdibile, che altro aggiungere? E ora dite la verità: sentite già che la vostra mente sta lasciando il vostro corpo?



    Il gabinetto del dottor Caligari

    Follia contro ragione, fantasia contro realtà: uno dei più celebri masterpiece dell’orrore mai realizzati.
    In breve. Film stra-cult perchè ha inventato molti consolidati stereotipi thriller, e per la meravigliosa forma espressionistica, a tratti impensabile per l’epoca. Contiene un interessante doppio finale “involontario” davvero clamoroso.

    Davvero singolare questo esempio di cinema muto risalente alla Germania del 1920, contato tra i primissimi horror della storia (Nosferatu di Murnau uscirà solo due anni dopo, così come Freaks di Browning). Girato secondo i canoni dell’espressionismo, si presenta come un film seminale adatto, oggi, probabilmente solo agli appassionati di cinema “assoluti” o, al limite, agli hacker di pellicole alla ricerca di immagini insolite. Com’è ovvio non esiste parlato a livello di suono, ma solo una lunga ed alienante colonna sonora curata da Giuseppe Becce.

    La storia è quella di un ipnotista che usa come un fenomeno da baraccone Cesare, un sonnambulo con la capacità singolare di predire il futuro delle persone. Dopo due misteriose morti avvenute in zona, una delle quali realizza esattamente la “profezia”, esce fuori che l’inquietante ipnotista avrebbe trovato un modo per controllare la volontà del giovane e costringerlo, durante il sonno, a compiere omicidi. Inoltre l’uomo si sarebbe immedesimato nella figura del Dottor Caligari, che aveva compiuto secoli prima delle approfondite ricerche sull’argomento ipnosi: come rivelazione definitiva si scopre che egli è, di fatto, il direttore di un manicomio che ha perso, neanche a dirlo, i lumi della ragione (i richiami al celebre “Dottor Catrame e Professor Piuma” di E. A. Poe sembrano sostanziali).

    Finita qui? Non proprio: non è infatti possibile discutere de “Il gabinetto del Dottor Caligari” senza considerare la parte iniziale e finale, inserite per imposizione del governo dell’epoca allo scopo di cambiarne il significato, letto addirittura come sovversivo. E così la versione definitiva del film viene farcita con un “panino” esterno, capace di stravolgere il messaggio di fondo e facendo apparire il tutto come l’allucinazione di un pazzo, che avrebbe inventato quella storia avendo in odio il direttore del manicomio in cui è rinchiuso. Col senno di poi, una volta tanto potremmo dire che la censura è riuscita a fare qualcosa di buono, anche se così facendo 1) il sottotesto del film viene annullato del tutto e 2) si è indotti a fare considerazioni piuttosto brutali contro il cinema stesso e, come ha scritto molto giustamente Exxagon, far apparire che “la visione espressionista sia quella di una folle, ovvero l’arte moderna non ha senso ed è pura pazzia“. Ad ogni modo questo particolarissimo espediente narrativo del doppio finale “innestato” diventerà un classico di un certo thriller moderno, nel quale la demolizione delle apparenze è condizione necessaria per svelarà la cruda realtà dei fatti.

    La trama non è troppo lineare, il film rimane comunque interessante mentre, a onor del vero, gli elementi bizzarri de “Il gabinetto del Dottor Caligari” non sono pochi, anzi occupano parte preponderante della pellicola: tuttavia, considerando l’epoca ed i mezzi annessi, l’opera è di livello davvero notevole e finirà per piacere anche a chi non ama particolarmente certi virtuosismi. Molto degni di nota gli effetti visivi globalmente presenti, mentre la sequenzialità della storia è resa in modo ottimale dalla successiva colorazione della pellicola (avvenuta nel 1996) che scandisce, ad esempio, i notturni in azzurro. Tra le curiosità più prettamente cinematografiche, infine, vi è l’interpretazione data da alcuni riguardo al misterioso Cesare, che – per via del comportamento e del suo dormire in una cassa di legno – sembrerebbe una specie di proto-zombie, il che smentirebbe White Zombi del 1932 come primo film di questo tipo. L’ipotesi è indubbiamente affascinante ma, di fatto, non mi pare nè smentibile nè confermabile sulla base a quello che vediamo.




    Fonte:lipercubo.it
     
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