Hereditary, Il film di Ari Aster

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    Non si finirà mai di insistere: l'horror è un genere che si basa su un equilibrio difficilissimo tra ripetizione e innovazione. Vale per tutti i generi, ma per l'occulto molto di più. I fan, numerosi e incredibilmente fedeli anche a fronte di delusioni croniche, aspettano sempre il film giusto che rimescoli gli ingredienti in modo da sorprendere e scuotere, eppure al contempo pretendono la conservazione di certi topoi. Accolto dal comprensibile - e forse un filo eccessivo - entusiasmo della critica e di parte del pubblico, Hereditary - Le radici del male importa la filosofia straniante e elegante della casa di produzione A24 (che ha già proposto sorprese come The VVitch e Ghost Story), e dunque inserisce elementi raffinati e psicologici nel tessuto di riferimento. Quella che sembra nella prima parte la radiografia di una famiglia scossa e psicologicamente malata, sfocia nel soprannaturale, o forse viceversa, a seconda dell'interpretazione che si vuole dare degli avvenimenti.

    Meno chiaramente metaforico di Babadook, cui si apparenta per alcune atmosfere e per certi passaggi isterici del rapporto madre/figlio, Hereditary - Le radici del male basa tutto, come spiega il titolo, sulla dimensione parentale, dove il consanguineo è fonte di pericoli o sciagure.
    Roy Menarini

    Se ci si concentra sul lato innovazione e originalità, si può facilmente notare come il reparto maggiormente sollecitato nel film di Ari Aster sia quello del rapporto tra immagine e suono. Lo stile si nutre principalmente di ampi piani orizzontali, che - se non fosse per gli accurati movimenti di macchina da presa (anch'essi da destra a sinistra e viceversa) - sembrano spesso set fotografici in movimento, con riferimenti a Gregory Crewdson e alti artisti della fotografia contemporanea. Allo stesso modo, alcuni dei momenti più scioccanti di Hereditary - Le radici del male sono gestiti con un'attenzione quasi "arty" alla resa visiva, come se alcuni fotogrammi fossero già pronti per una esposizione in qualche galleria. Il tutto si moltiplica attraverso le inquietanti miniature costruite dalla protagonista, a loro volta piccoli commenti meta-cinematografici a ciò cui stiamo assistendo. Musica e suono, poi, si confondono, come quando il tappeto sonoro stridente e talvolta fastidioso si interrompe di colpo e quasi ci segnala, per assenza, la sua onnipresenza.
     
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