Ucraina, il 16enne Vitaly racconta la fuga dai campi di rieducazione russi

Ci dicevano ormai siete russi a tutti gli effetti

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    «Ho cominciato ad avere paura quando, la sera del 21 ottobre 2022, mi hanno detto che non potevo più avere opinioni mie, dovevo smettere di pensare e invece unirmi al loro coro delle canzoni nazionaliste russe. Poi ho visto che picchiavano chi non cantava con un tubo di gomma dura e allora ho capito che non eravamo più ospiti in vacanza: ormai si era diventati tutti prigionieri».
    Ha solo 16 anni Vitaly Vertash, però racconta la sua versione di «1984» riadattata al conflitto russo-ucraino contemporaneo con lucidità ponderata, attento ai minimi dettagli. Lo incontriamo con la mamma Inessa di 43 anni e i cinque fratelli nel centro di accoglienza profughi arrivati nella capitale dalla regione di Kherson martoriata dalla guerra .
    Non è stato facile parlargli: Vitaly è uno delle migliaia di bambini e ragazzi minorenni provenienti dalle zone ucraine occupate dai soldati russi che il regime di Vladimir Putin ha cercato di rapire dalle famiglie originarie per fare loro il lavaggio del cervello, farli adottare da famiglie o istituzioni russe e trasformarli in propri cittadini a tutti gli effetti.

    Il tema è caldo, meno di due settimane fa il Tribunale internazionale dell’Aia ha incriminato direttamente Putin per «crimini di guerra» in relazione proprio ai «bambini rapiti»: un grande progetto di ingegneria sociale contrario ai diritti fondamentali dell’individuo, che Mosca neppure cerca di nascondere, bensì presenta come il logico completamento della sua negazione dell’identità nazionale ucraina in nome della legittimità storica del Russkiy Mir, il mondo russo.


    «Inizialmente furono i collaborazionisti ucraini locali con le autorità russe a convincerci che poteva essere una buona idea acconsentire di mandare i nostri figli a trascorrere due settimane di vacanze in una località balneare della Crimea. Nel caso di Vitaly fu la rettrice del suo liceo, Tamara Miroshnichenko, a proporci il progetto. Vitaly sarebbe partito con 36 compagni di scuola a bordo di un bus pagato dallo Stato russo. Però, già il giorno dopo mi pentii, chiesi che potesse rientrare a casa, ma era ormai troppo tardi», ricorda Inessa.

    Il racconto va inserito nel contesto di quei giorni. Era il 7 ottobre 2022, il loro villaggio di Berislav, vicino al nucleo urbano di Kherson sulla sponda occidentale del Dnipro, era stato occupato dai russi sin dal 25 febbraio. Intanto, però, l’esercito ucraino premeva per riprenderlo (ci sarebbe riuscito l’11 novembre), i combattimenti si stavano avvicinando di giorno in giorno: i genitori erano ben contenti di mandare i figli più giovani lontani dal pericolo delle bombe.

    Il filo della memoria lo riprende Vitaly: «All’inizio andò più o meno come avevano promesso. Dopo un viaggio di 20 ore fummo portati al sanatorio di Mechta, che in russo significa sogno. Si mangiava vario e abbondante, il mare era pulito, potevamo giocare sulla spiaggia e ci portavano a fare lunghe gite sulle colline boscose. Trovammo altri 400 bambini arrivati da varie parti dell’Ucraina occupata. Ma la situazione mutò drasticamente al quindicesimo giorno, avevo già mandato un WhatsApp per avvisare la mamma che stavo tornando, fu allora che ci dissero bruschi e senza spiegazioni che saremmo rimasti. Fummo portati a Drusba, un luogo molto brutto, sembra un campo di prigionia, ci dissero che avremmo dovuto pulire le spiagge per guadagnarci il pane, non c’erano letti o lenzuola pulite, il cibo era pessimo, mangiavamo solo a cena una brodaglia nera che qualcuno chiamava minestra. Non potevamo uscire senza permesso, a tutti gli effetti eravamo prigionieri».

    Il ragazzo non ci sta, si ribella, assieme a Tania, una diciassettenne inquieta come lui, scappano dal campo, ma la polizia li trova: vengono portati indietro. Continua la storia: «Fu allora che apparve il nostro aguzzino: Astrakav, il capo del campo. Prima cercando di blandirci con le buone, poi con le minacce e violenze, ci disse che in verità noi eravamo russi a tutti gli effetti, dovevamo accettare la realtà, non c’erano alternative. Per quasi sei mesi, ogni sera, ci è stata imposta l’ora di dottrina, la “razgovor o vashnom”, come in russo chiamano i discorsi importanti. Quando me ne sono andato a metà marzo almeno una sessantina di bambini erano già spariti in Russia».

    Per lui la salvezza arriva tramite l’organizzazione Save Ukraine , che grazie a sostegni internazionali riesce farlo rientrare. I dettagli sono riservati. Lui dice di avere viaggiato cinque giorni e di essere entrato in Ucraina dalla Bielorussia. Tanti non sono stati altrettanto fortunati.
     
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