Kharkiv, Torture, sevizie sessuali con scariche elettriche nei territori occupati dai russi

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    KHARKIV — «Le autorità d’occupazione russe torturano in modo metodico gli uomini che rifiutano di fare il servizio militare. E per tanti sono sevizie sessuali continue, con elettroshock ai genitali e ogni tipo di violenza immaginabile. Una politica del disprezzo e dell’umiliazione di massa per imporre i loro piani di annichilimento della nostra identità nazionale», denunciano gli ucraini che riescono a uscire dai territori occupati e tornare nel loro Paese.

    Li incontriamo nel centro di accoglienza a Kharkiv della «Shlokh Ukraine» (Strada per l’Ucraina), l’organizzazione umanitaria che si occupa di assisterli. Un fenomeno poco conosciuto. Le ultime ondate rilevanti di persone in fuga le avevamo seguite nella primavera 2022 ed erano civili in arrivo a Zaporizhzhia da Mariupol e dal Kherson. Ma negli ultimi mesi si è aperto a intermittenza un nuovo «corridoio verde» di gente che riesce a evacuare dal Donbass, Mariupol e dalle altre regioni occupate nel sud, entra in Russia vicino a Rostov, si sposta verso Belgorod, attraversa a piedi e sotto la minaccia degli spari per oltre 3 chilometri la «terra di nessuno» del confine tra il villaggio russo di Kolotilovka e quello ucraino di Pokrovka, per raggiungere la città di Sumy sulla via di Kharkiv.

    I numeri non sono alti. «Parliamo di una media di 100 persone al giorno quando è possibile passare, per lo più anziani e donne. Però, tra le interruzioni per la guerra e gli alt improvvisi imposti dalle autorità russe, raramente superano i 1.000 al mese. L’ultimo blocco è stato dal 24 luglio al 4 agosto. Sappiamo che vorrebbero venire in decine di migliaia, ma scoraggia l’arbitrarietà degli ufficiali russi. In media da quando lasciano le loro case all’arrivo da noi impiegano tra i 5 e 10 giorni, per un viaggio che in tempi normali prenderebbe ben meno di 24 ore. L’ultimo posto di blocco prima della frontiera è controllato dagli agenti del famigerato Fsb (il servizio segreto russo ndr) e loro hanno l’autorità di fermare e arrestare chiunque al «filtration center», come in effetti avviene regolarmente tutti i giorni: i desaparecidos abbondano», denuncia la 34enne Irina Dudkina, che ha l’incarico di accoglierli alla fine di quella che qui chiamano «la marcia della paura».

    Uno dei motivi di rinuncia per le famiglie con neonati è che Mosca considera russi i bambini nati sotto occupazione. S’impone così l’ultimatum fondato sul ricatto dei sentimenti. «Se volete andare in Ucraina siete libere, ma i vostri figli restano qui e verranno adottati da famiglie russe»: è il diktat che angoscia le madri chiamate a scegliere in pochi minuti tra l’amore per la patria e la libertà, oppure per i figli.

    Per gli uomini sopra i 18 anni il motivo più frequente che induce a partire è la lettera di precetto. «L’ho ricevuta a fine luglio. Era l’ordine di presentarmi al distretto militare di Lugansk entro il primo agosto. Avrei dovuto andare a combattere contro i miei compatrioti ucraini. In caso contrario, sarei stato arrestato come disertore», dice il 30enne Artiom, appena arrivato a Kharkiv con la moglie 29enne Anastasia e i loro quattro bambini di età compresa tra 4 e 11 anni. «I russi erano arrivati al nostro villaggio di Starobelsk il primo marzo 2022. All’inizio ci hanno ignorato, credevano di vincere facile. Poi la situazione è cambiata gradualmente, sono iniziate le perquisizioni e le minacce, specie da parte dei soldati ceceni e dei volontari filorussi locali. Gente violenta, che entra in casa e ruba a piacimento, specie se capisce che non hai il passaporto russo. Pochi mesi fa i loro servizi segreti hanno scoperto che mio fratello è volontario con la 53esima Brigata di fanteria a Dnipro. Ho avuto paura. Il mio amico Evgenii è stato rapito e torturato per essersi rifiutato di andare militare», aggiunge Artiom. Per Anastasia il problema è cresciuto quando la sanità locale ha rifiutato qualsiasi assistenza medica ai figli, se non con la promessa che sarebbero diventati cittadini russi entro la fine dell’anno.

    Ma la storia più drammatica la raccontano la 39enne Irina Golovko e il marito Grigori di 40 anni, appena arrivati con i due figli di 3 e 6 anni. Piangono, si rassicurano, ogni tanto sorridono. Lui è stato in carcere per 7 mesi. «Gli aguzzini torturano con l’elettricità. Lo fanno su tutto il corpo degli uomini, specie ai genitali. A giovani e vecchi, più volte al giorno. Ci odiano, dicono che siamo gay depravati schiavi degli europei. L’unico modo per essere libero è stato accettare di farmi riprendere in un video dove denuncio il nazismo ucraino», dice lui. Vengono dal villaggio di Golapristan, sulla sponda orientale del Dnipro, che venne devastato dall’inondazione provocata dall’attacco russo contro la diga di Nova Kachovka il 6 giugno. Grigori dopo la liberazione ha visitato brevemente Goalpristan. Mostra le foto della loro casa devastata e dice: «Tutto è stato distrutto dalle acque, i russi non hanno fatto nulla per aiutare la gente. Ci sono centinaia di cadaveri insepolti. Esigono che gli ucraini diventino russi: oppure morti o profughi. Ci hanno lasciati partire perché non ci vogliono più».
     
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